Opera di Felice Antonio Botta

Felice Antonio Botta è un fiorentino verace. Di quelli con la parlata morbida, che scivola dolcemente sulle c aspirate come il sole quando accarezza le colline di Fiesole al tramonto. È proprio sulle rive dell’Arno che riceve la sua formazione. All’Istituto d’Arte di Firenze infatti apprende i segreti del mestiere sotto la guida di Pietro Parigi, il famoso xilografo.

Gli anni ’60 e ’70 rappresentano, per Felice Antonio Botta un periodo estremamente felice. Nel 1970 viene selezionato per il Compasso D’Oro e uno dei suoi oggetti viene esposto alla XIV Triennale di Milano. Mentre i suoi oggetti didattici hanno ricevuto per ben 11 volte il prestigioso marchio Spielgut (giocare bene). La sede di questo premio internazionale è la città bavarese di Ulm.

Dopo aver esposto in numerose città, in Italia e all’estero, oggi Felice Antonio Botta si dedica soprattutto alla scultura. Adora i legni, soprattutto quelli poveri. Li colleziona, li archivia e poi li usa, senza nulla togliere o aggiunger loro, per realizzare collage e sculture.

Una ricerca in cui l’amore per l’arte e il rispetto per la natura si coniugano in un percorso che va “scoprendo sempre più la verità del semplice”.

D: Nelle biografie di molti artisti si raccontano spesso quei momenti che gli inglesi chiamano defining, ovvero i momenti determinanti nella vita di una persona. Ne ha mai avuto uno che le ha fatto capire di poter diventare un artista? Oppure lei ha capito che poteva fare del suo talento una ragione di vita mentre stava intraprendendo un percorso?

R: Si può dire che io abbia sempre voluto fare l’artista. Fin da quando avevo nove anni e andavo a scuola sotto i bombardamenti che colpivano Firenze durante la guerra. Perciò, in un certo senso, è corretto dire che io sia diventato un artista seguendo un percorso, fatto di studio da una parte e lavoro dall’altra. Il lavoro era necessario perché mio padre mi ha sempre sconsigliato di intraprendere questa carriera. Ma io mi sono sempre sentito libero di fare quello che desideravo e mi sono saputo sacrificare per farlo.
Però c’è stato un momento determinante, quello in cui ho capito che avrei potuto vivere della mia arte. Per alcuni anni è stato così. Sono stati anni bellissimi, in cui ho potuto lavorare, conoscere e frequentare personaggi di grande spessore. Senza quella consapevolezza tutto questo non sarebbe mai accaduto.

D: Quanto è stata importante e che peso ha avuto nella sua carriera la formazione che ha ricevuto?

R: La formazione è fondamentale per un artista. Senza di essa è difficile poter fare arte. Se non fossi convinto dell’importanza di avere una buona formazione non insegnerei e non continuerei a studiare ancora alla mia età. Mi considero un eterno studente, perché c’è sempre tanto da imparare.

D: Per la sua esperienza, e dal punto di vista del carattere, quali sono le caratteristiche che non dovrebbero mancare mai a una persona che decide di incamminarsi sulla strada dell’arte?

R: Un tempo non c’era che una strada: passione e lavoro. Oggi invece ci sono molte scorciatoie, che passano per l’arrivismo, l’apparenza e l’autopromozione più becera. Ma io penso che il vero artista sia un uomo capace di soffrire in silenzio e portare la sua croce. Ricordo che tanti anni fa, quando ero agli inizi, arrivai secondo a un concorso d’arte. Lo raccontai a un vecchio artista che conoscevo e lui, commentando il mio entusiasmo, mi ricordò che “l’arte è un tarlo”. Non ho mai scordato quelle parole.

D: Quali sono le tre cose che più l’affascinano del mondo e del sistema dell’arte?

R: Tre sono fin troppe da elencare, ne basta una: l’amore. Per me non c’è amante più grande dell’arte.

D: E quali, invece, sono le tre cose che proprio non riesce a sopportare?

R: Infingardaggine, bugia ed edonismo.

D: Cosa consiglia a un artista emergente che cerca di fare del proprio talento la sua vita?

R: Il consiglio che mi sento di dare a un artista emergente è di essere sempre sincero con se stesso e non aspettarsi nulla dagli altri.

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